Gentili colleghi,
è con sincero imbarazzo che mi accingo a parlare di me
stesso, consapevole come sono del mio carattere riservato e schivo, poco
incline a “dire” invece che a “fare”.
L’occasione che l’iniziativa assunta dal Comitato di Altra
Proposta mi ha dato impone, tuttavia, che mi presenti a tutti voi e, quindi,
che illustri sinteticamente alcune idee e riflessioni maturate in oltre
vent’anni di esercizio della funzione giurisdizionale.
Ho sempre svolto le funzioni di giudice, sia in ambito
penale che in quello civile: nei primi quattro anni circa ho esercitato
contemporaneamente le funzioni di giudice penale e civile presso il Tribunale
di Lagonegro; nei successivi otto anni ho svolto presso il Tribunale di Salerno,
dapprima, funzioni di giudice componente il collegio penale e, poi, anche
quelle di presidente del collegio medesimo; negli ulteriori sei anni ho
esercitato le funzioni di giudice civile in primo grado sempre presso il Tribunale
di Salerno; attualmente, da circa quattro anni, compongo il collegio della
Prima Unità della Sezione Civile della Corte di Appello di Salerno.
Non ho assunto incarichi fuori ruolo, né ho avuto esperienza
in Consigli giudiziari.
Non ho neppure mai aderito a correnti o movimenti dell’ANM.
Questo non ha significato totale estraneità alle vicende ed ai dibattiti che
hanno agitato la magistratura negli ultimi due decenni. Piuttosto, ho preferito
conservare e difendere a tutti i costi la mia libertà di pensiero ed
indipendenza facendo buona applicazione del principio secondo cui il
magistrato, pur legittimamente coltivando le proprie convinzioni, deve comunque
essere ed apparire all’esterno come libero, non ideologicamente schierato e
prevenuto nei confronti di chi sia portatore di un pensiero altro, ed
orientando le mie scelte, in sede di elezioni interne, in favore di colleghi da
me personalmente conosciuti e stimati, indipendentemente dal colore dello
schiera-mento a cui aderissero. Tanto non mi ha preservato, purtroppo, da
cocenti delusioni.
Preciso subito che ho scelto la professione del magistrato
perché fermamente convinto dell’importanza dell’amministrazione della giustizia
in una logica di servizio per la comunità in cui opero. Non coltivo, dunque,
ambizioni di carriera comoda e agevolata e non ho difficoltà ad assumere il formale impegno - ove eletto al CSM – a non ricoprire,
negli anni immediatamente successivi al termine del mandato, incarichi
istituzionali nell’ANM, nei Ministeri, nel Parlamento o in altri uffici di
“prestigio” ed a non transitare in partiti politici. Il lavoro che svolgo mi piace
troppo e lo faccio con dedizione e passione e non vi rinuncerei mai; purtroppo,
non mi piacciono affatto le condizioni mortificanti in cui si è costretti ad
operare.
La mia personale esperienza professionale mi induce a
mettere in evidenza il profondo disagio in cui vive la maggior parte dei
colleghi che conosco e con i quali quotidianamente mi confronto. Un disagio
alimentato anche dall’amara constatazione dello stato di degrado culturale e di
valori in cui versa la società e, di riflesso, la stessa magistratura, troppo
spesso ingessata nelle sue scelte da logiche “politiche” preferite a
valutazioni di merito, con conseguente dilagante perdita di credibilità della
categoria nei più disparati ambiti sociali.
A mio avviso, è
indispensabile il recupero di criteri di giudizio rigorosi nella scelta dei
colleghi destinati a ricoprire incarichi direttivi e semidirettivi, riconoscendo
valenza privilegiata alla diversità delle funzioni già esercitate nonché alla
quantità ed alla qualità del lavoro in precedenza svolto nell’esercizio delle
pregresse funzioni.
Più in generale, ai fini della valutazione di
professionalità e della progressione in carriera, tenuto conto delle fin troppo
ovvie specificità rappresentate dalle funzioni svolte e dall’ambito
territoriale e sociale in cui le stesse sono esercitate, occorre sganciare la
valutazione del singolo magistrato da dinamiche squisitamente imprenditoriali
per le quali privilegiare alla qualità il numero dei provvedimenti adottati in
un arco temporale più o meno esteso.
Chiunque di noi faccia il suo lavoro con
scienza e coscienza è perfettamente consapevole che altro è studiare il
fascicolo processuale e predisporre la sentenza a definizione di una
controversia civile in materia di successione mortis causa o di appalti pubblici o di responsabilità
medico-professionale, altro è studiare e redigere una sentenza in materia di
reintegrazione del possesso.
Adottare criteri di “produttività” ancorati prevalentemente
al dato quantitativo significa, da un lato, trascurare quello che è l’ “in sé”
della nostra professione, vale a dire la valutazione giuridica di fatti
(attività che comporta, di regola, studio approfondito dell’incartamento,
ricerca di eventuali precedenti, elaborazione degli approdi giurisprudenziali e
dottrinali in materia, confronto con i colleghi componenti il collegio
giudicante, ecc.), che impone tempi non agevolmente preventivabili e non può
essere mortificata sempre e comunque in tempi prefissati e, dall’altro, pregiudicare
la qualità del servizio giacché, atteso il carico di lavoro, l’osservanza di
“volumi” imposti di produzione, progressivamente sempre superiori, in tempi circoscritti
può essere assicurata soltanto a scapito dell’approfondimento e dello studio e,
quindi, della bontà della decisione finale, con conseguente aggravio per i
colleghi dei gradi successivi.
A mio avviso, la valutazione del magistrato va operata in
concreto prendendo a riferimento il lavoro espletato in periodi continuativi (uno/tre
mesi) di ciascuno degli anni considerati ai fini della valutazione ed
esaminando tutti i principali provvedimenti (ordinanze e sentenze) redatti in
tali periodi onde verificare lo standard qualitativo assicurato.
A tanto
abbinare, certo, la considerazione del numero dei provvedimenti, ma
valorizzando tale dato non già in rapporto ad obiettivi programmatici
preventivamente fissati in astratto, quanto piuttosto alla specificità ed al
grado di difficoltà concreta delle funzioni esercitate, al carico di lavoro,
alle eventuali deficienze di organico, di strutture e/o di servizi dell’ufficio
di appartenenza. In tale ottica, non merita di essere trascurato il rilievo che
soltanto in uffici giudiziari di consistenti dimensioni è possibile articolare
sezioni “specializzate” nella trattazione esclusiva di determinate materie,
essendo per converso più vicina all’esperienza di gran parte dei magistrati la
necessità di affrontare e risolvere quotidianamente problematiche giuridiche
afferenti alle più disparate materie, pur nell’ambito del medesimo settore,
civile o penale, e di applicare – specie nel settore civile - riti differenti
tra loro non solo con riguardo a ciascuna materia, ma anche, nell’ambito della
medesima materia, in dipendenza del contesto temporale in cui si colloca
l’instaurazione del giudizio. Infine, va esclusa del tutto la rilevanza di
eventuali titoli estranei all’esercizio dell’attività giurisdizionale, quali
pubblicazione di testi scientifici, di note a sentenza o collaborazioni con
atenei o scuole professionali, riviste specializzate ecc.
Che il magistrato, in
quanto operatore giuridico professionale, offra il proprio contributo personale
allo studio ed all’evoluzione scientifica di ambiti ed istituti del diritto è
cosa lodevole ed apprezzabile; che tanto possa fare la differenza ai fini della
carriera rispetto ad altri che, invece, abbiano riservato anche il tempo libero
alla redazione di provvedimenti ed al lavoro in ufficio mi sembra eccessivo e
non compatibile con le ragioni per le quali si è stati assunti in magistratura.
Quanto agli incarichi extragiudiziari con conseguente
collocamento fuori ruolo, credo sia auspicabile che essi vengano drasticamente
ridotti a quelli strettamente necessari, con puntuale definizione della natura,
dei tempi di permanenza e del numero. Occorre, poi, evitare che vengano
assicurate opzioni privilegiate a coloro che, al termine del mandato, facciano
rientro in ruolo onde impedire che, in occasione della scelta della nuova sede
o delle funzioni, vengano pregiudicati i colleghi che hanno continuato a
svolgere esclusivamente le funzioni giurisdizionali.
Forte della mia pregressa esperienza anche di giudice penale
e di presidente di un collegio dibattimentale penale, ritengo opportuno che
vengano meglio definite le carriere di giudice e pubblico ministero nel pieno
ed incondizionato rispetto dei principi di libertà, indipendenza ed autonomia
che vanno sempre e comunque riconosciuti ad appannaggio dell’una e dell’altra
funzione, ma anche nella consapevolezza che diverso nei confronti del
fatto-reato è l’approccio del giudice e quello del pubblico ministero.
Quelle illustrate sono considerazioni e riflessioni
articolate di getto senza la presunzione di esaurire la complessità delle
tematiche a cui esse ineriscono, ma soltanto per dare indicazione di quale sia
la traccia del mio pensiero su taluni aspetti che più di altri credo possano interessare
i giudici di merito.
Certo, non mi illudo di raccogliere il consenso di tutti
quanti leggano queste righe, così come sono convinto di avere proposto
argomenti e suggerito spunti sui quali è possibile registrare una convergenza
di opinioni.
Quale che sia l’esito dell’iniziativa assunta da Altra
Proposta, credo che essa vada apprezzata in quanto esprime il disagio e dà voce
all’insoddisfazione diffusa di molti magistrati per la gestione della rappresentanza
e dell’autogoverno come finora attuata e rappresenta un segnale importante in
direzione di un autentico rinnovamento delle logiche di elezione dei componenti
il CSM, rinnovamento troppo spesso auspicato soltanto a parole proprio da chi,
invece, all’affermazione di quelle logiche ha concorso e se ne è strumentalmente
avvalso all’esclusivo fine di assecondare personali ambizioni.
In bocca al lupo a tutti i colleghi sorteggiati che hanno
accolto la sfida lanciata da Altra Proposta.
Vi ringrazio per l’attenzione prestata.
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