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Michele Videtta, Consigliere della Corte di appello di Salerno




Gentili colleghi,

è con sincero imbarazzo che mi accingo a parlare di me stesso, consapevole come sono del mio carattere riservato e schivo, poco incline a “dire” invece che a “fare”.

L’occasione che l’iniziativa assunta dal Comitato di Altra Proposta mi ha dato impone, tuttavia, che mi presenti a tutti voi e, quindi, che illustri sinteticamente alcune idee e riflessioni maturate in oltre vent’anni di esercizio della funzione giurisdizionale.

Ho sempre svolto le funzioni di giudice, sia in ambito penale che in quello civile: nei primi quattro anni circa ho esercitato contemporaneamente le funzioni di giudice penale e civile presso il Tribunale di Lagonegro; nei successivi otto anni ho svolto presso il Tribunale di Salerno, dapprima, funzioni di giudice componente il collegio penale e, poi, anche quelle di presidente del collegio medesimo; negli ulteriori sei anni ho esercitato le funzioni di giudice civile in primo grado sempre presso il Tribunale di Salerno; attualmente, da circa quattro anni, compongo il collegio della Prima Unità della Sezione Civile della Corte di Appello di Salerno.

Non ho assunto incarichi fuori ruolo, né ho avuto esperienza in Consigli giudiziari.

Non ho neppure mai aderito a correnti o movimenti dell’ANM. Questo non ha significato totale estraneità alle vicende ed ai dibattiti che hanno agitato la magistratura negli ultimi due decenni. Piuttosto, ho preferito conservare e difendere a tutti i costi la mia libertà di pensiero ed indipendenza facendo buona applicazione del principio secondo cui il magistrato, pur legittimamente coltivando le proprie convinzioni, deve comunque essere ed apparire all’esterno come libero, non ideologicamente schierato e prevenuto nei confronti di chi sia portatore di un pensiero altro, ed orientando le mie scelte, in sede di elezioni interne, in favore di colleghi da me personalmente conosciuti e stimati, indipendentemente dal colore dello schiera-mento a cui aderissero. Tanto non mi ha preservato, purtroppo, da cocenti delusioni.

Preciso subito che ho scelto la professione del magistrato perché fermamente convinto dell’importanza dell’amministrazione della giustizia in una logica di servizio per la comunità in cui opero. Non coltivo, dunque, ambizioni di carriera comoda e agevolata e non ho difficoltà ad assumere il formale impegno - ove eletto al CSM – a non ricoprire, negli anni immediatamente successivi al termine del mandato, incarichi istituzionali nell’ANM, nei Ministeri, nel Parlamento o in altri uffici di “prestigio” ed a non transitare in partiti politici. Il lavoro che svolgo mi piace troppo e lo faccio con dedizione e passione e non vi rinuncerei mai; purtroppo, non mi piacciono affatto le condizioni mortificanti in cui si è costretti ad operare.   

La mia personale esperienza professionale mi induce a mettere in evidenza il profondo disagio in cui vive la maggior parte dei colleghi che conosco e con i quali quotidianamente mi confronto. Un disagio alimentato anche dall’amara constatazione dello stato di degrado culturale e di valori in cui versa la società e, di riflesso, la stessa magistratura, troppo spesso ingessata nelle sue scelte da logiche “politiche” preferite a valutazioni di merito, con conseguente dilagante perdita di credibilità della categoria nei più disparati ambiti sociali.

 A mio avviso, è indispensabile il recupero di criteri di giudizio rigorosi nella scelta dei colleghi destinati a ricoprire incarichi direttivi e semidirettivi, riconoscendo valenza privilegiata alla diversità delle funzioni già esercitate nonché alla quantità ed alla qualità del lavoro in precedenza svolto nell’esercizio delle pregresse funzioni.  
Più in generale, ai fini della valutazione di professionalità e della progressione in carriera, tenuto conto delle fin troppo ovvie specificità rappresentate dalle funzioni svolte e dall’ambito territoriale e sociale in cui le stesse sono esercitate, occorre sganciare la valutazione del singolo magistrato da dinamiche squisitamente imprenditoriali per le quali privilegiare alla qualità il numero dei provvedimenti adottati in un arco temporale più o meno esteso.

Chiunque di noi faccia il suo lavoro con scienza e coscienza è perfettamente consapevole che altro è studiare il fascicolo processuale e predisporre la sentenza a definizione di una controversia civile in materia di successione mortis causa o di appalti pubblici o di responsabilità medico-professionale, altro è studiare e redigere una sentenza in materia di reintegrazione del possesso.

Adottare criteri di “produttività” ancorati prevalentemente al dato quantitativo significa, da un lato, trascurare quello che è l’ “in sé” della nostra professione, vale a dire la valutazione giuridica di fatti (attività che comporta, di regola, studio approfondito dell’incartamento, ricerca di eventuali precedenti, elaborazione degli approdi giurisprudenziali e dottrinali in materia, confronto con i colleghi componenti il collegio giudicante, ecc.), che impone tempi non agevolmente preventivabili e non può essere mortificata sempre e comunque in tempi prefissati e, dall’altro, pregiudicare la qualità del servizio giacché, atteso il carico di lavoro, l’osservanza di “volumi” imposti di produzione, progressivamente sempre superiori, in tempi circoscritti può essere assicurata soltanto a scapito dell’approfondimento e dello studio e, quindi, della bontà della decisione finale, con conseguente aggravio per i colleghi dei gradi successivi.

A mio avviso, la valutazione del magistrato va operata in concreto prendendo a riferimento il lavoro espletato in periodi continuativi (uno/tre mesi) di ciascuno degli anni considerati ai fini della valutazione ed esaminando tutti i principali provvedimenti (ordinanze e sentenze) redatti in tali periodi onde verificare lo standard qualitativo assicurato.

A tanto abbinare, certo, la considerazione del numero dei provvedimenti, ma valorizzando tale dato non già in rapporto ad obiettivi programmatici preventivamente fissati in astratto, quanto piuttosto alla specificità ed al grado di difficoltà concreta delle funzioni esercitate, al carico di lavoro, alle eventuali deficienze di organico, di strutture e/o di servizi dell’ufficio di appartenenza. In tale ottica, non merita di essere trascurato il rilievo che soltanto in uffici giudiziari di consistenti dimensioni è possibile articolare sezioni “specializzate” nella trattazione esclusiva di determinate materie, essendo per converso più vicina all’esperienza di gran parte dei magistrati la necessità di affrontare e risolvere quotidianamente problematiche giuridiche afferenti alle più disparate materie, pur nell’ambito del medesimo settore, civile o penale, e di applicare – specie nel settore civile - riti differenti tra loro non solo con riguardo a ciascuna materia, ma anche, nell’ambito della medesima materia, in dipendenza del contesto temporale in cui si colloca l’instaurazione del giudizio. Infine, va esclusa del tutto la rilevanza di eventuali titoli estranei all’esercizio dell’attività giurisdizionale, quali pubblicazione di testi scientifici, di note a sentenza o collaborazioni con atenei o scuole professionali, riviste specializzate ecc. 

Che il magistrato, in quanto operatore giuridico professionale, offra il proprio contributo personale allo studio ed all’evoluzione scientifica di ambiti ed istituti del diritto è cosa lodevole ed apprezzabile; che tanto possa fare la differenza ai fini della carriera rispetto ad altri che, invece, abbiano riservato anche il tempo libero alla redazione di provvedimenti ed al lavoro in ufficio mi sembra eccessivo e non compatibile con le ragioni per le quali si è stati assunti in magistratura.

Quanto agli incarichi extragiudiziari con conseguente collocamento fuori ruolo, credo sia auspicabile che essi vengano drasticamente ridotti a quelli strettamente necessari, con puntuale definizione della natura, dei tempi di permanenza e del numero. Occorre, poi, evitare che vengano assicurate opzioni privilegiate a coloro che, al termine del mandato, facciano rientro in ruolo onde impedire che, in occasione della scelta della nuova sede o delle funzioni, vengano pregiudicati i colleghi che hanno continuato a svolgere esclusivamente le funzioni giurisdizionali.      

Forte della mia pregressa esperienza anche di giudice penale e di presidente di un collegio dibattimentale penale, ritengo opportuno che vengano meglio definite le carriere di giudice e pubblico ministero nel pieno ed incondizionato rispetto dei principi di libertà, indipendenza ed autonomia che vanno sempre e comunque riconosciuti ad appannaggio dell’una e dell’altra funzione, ma anche nella consapevolezza che diverso nei confronti del fatto-reato è l’approccio del giudice e quello del pubblico ministero.

Quelle illustrate sono considerazioni e riflessioni articolate di getto senza la presunzione di esaurire la complessità delle tematiche a cui esse ineriscono, ma soltanto per dare indicazione di quale sia la traccia del mio pensiero su taluni aspetti che più di altri credo possano interessare i giudici di merito.

Certo, non mi illudo di raccogliere il consenso di tutti quanti leggano queste righe, così come sono convinto di avere proposto argomenti e suggerito spunti sui quali è possibile registrare una convergenza di opinioni.

Quale che sia l’esito dell’iniziativa assunta da Altra Proposta, credo che essa vada apprezzata in quanto esprime il disagio e dà voce all’insoddisfazione diffusa di molti magistrati per la gestione della rappresentanza e dell’autogoverno come finora attuata e rappresenta un segnale importante in direzione di un autentico rinnovamento delle logiche di elezione dei componenti il CSM, rinnovamento troppo spesso auspicato soltanto a parole proprio da chi, invece, all’affermazione di quelle logiche ha concorso e se ne è strumentalmente avvalso all’esclusivo fine di assecondare personali ambizioni. 

In bocca al lupo a tutti i colleghi sorteggiati che hanno accolto la sfida lanciata da Altra Proposta.


Vi ringrazio per l’attenzione prestata. 

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